//Notebook// L’Indian più veloce del West. E non solo.

Boneville 1962.

La carne del polpaccio stà ormai friggendo a contatto con la marmitta rovente ed il dolore diventa insopportabile. Perfettamente incastrato ed aerodinamico all’interno di quella carenatura tanto simile ad una bara con due ruote, Burt Munro ha appena attraversato il quinto passaggio al cronometro e ne mancano ancora tre. Il rombare del motore è assordante, cosi assordante da isolare completamente Munro dal resto del mondo. Non sente nulla se non la forza spingerlo avanti, accumulando un chilometro orario alla volta.

Questa non è una corsa come tutte le altre. La paura che la gara si trasformi in una tragedia è scritta negli occhi di tutti. Al sesto passaggio la velocità registrata ha dell’incredibile ma la gara è ancora da finire. Le mani sudano dentro ai guanti che stringono la manopola del gas per non lasciarsi sfuggire nemmeno un centimetro di potenza. Nessun vestito tecnico a proteggerlo, non un paracadute d’emergenza. I freni non riusciranno mai a fermare un proiettile come quello; lo sanno i giudici, lo sanno gli altri piloti e lo sa’ Munro stesso. Tenere stabile una moto del genere ad alte velocità è quasi un’utopia, tant’è che, dopo metà percorso, nonostante le decine di modifiche tecniche apportate dallo stesso Munro come quel mattone d’acciaio saldato davanti alla ruota posteriore per tenerla in assetto, la moto inizia a oscillare paurosamente.

 

Non si è mai vista una cosa simile. Siamo al settimo passaggio ed in lontananza si può vedere la bandierina del traguardo sventolare spinta dal vento dello Utha, Stati Uniti. La moto però è troppo instabile per poter arrivare fino alla fine. Probabilmente gli organizzatori stanno iniziando a pentirsi della decisione che hanno preso: di lasciare questo sconosciuto partecipare ad una competizione del genere, con una moto ricostruita quasi tutta a mano e senza alcun dispositivo di sicurezza.

Dalla linea di partenza non si vede più nulla, mentre l’Indian scout di Munro è ormai un puntino rosso che sparisce inghiottita dal candore bianco del lago salato di Bonneville; se n’è andata sotto gli occhi di tutti ed anche il rombo del motore sembra sparito. Dai megafoni, per qualche secondo non esce più alcun suono in un incredulo momento di silenzio. Tutti attendono il verdetto del cronometro mentre nello stesso istante la squadra di soccorso si lancia a tutta velocità verso quell’orizzonte muto. Le persone si guardano pietrificate ed inermi, quasi sapessero cosa è successo, là dove il loro sguardo non può arrivare. Quello delle gare di velocità è uno sport fatto anche di imprevisti, tutti lo sanno e tutti temono che la storia di quell’uomo sia ormai giunta al termine. “Era troppo vecchio”, “troppo pericoloso”, “la moto era instabile” sembrano dirsi tutti, guardandosi in viso ma senza parlare. Poi, la voce metallica dei giudici graffia l’aria con una notizia inaspettata: “È record, è record mondiale” comunicano stupefatti appena capiscono che quell’Indian Scout, tutta rattoppata, sbarcata qualche giorno prima assieme ad una vecchio sessantanovenne Neozelandese, è ora il bicilindrico (categoria inferiore ai 1000 cc) più veloce della storia. Ciò che ancora non sanno, è che quel record non verrà mai più battuto.

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Si potrebbe credere che questa sia la storia di una gara velocistica, e non è del tutto errato. Questa però, è più precisamente la storia di una passione, quella di Burt Munro, che con la sua dedizione ai motori ed un religioso amore per la velocità, accompagnato dalla sua leggendaria Indian Scout, è ora simbolo di forza di volontà, impegno e coraggio. Un uomo ed un nome che ogni motociclista dovrebbe tatuarsi sul polso della mano destra.

La sua “leggenda” ha inizio nel 1920, quando per la prima volta comprò la Indian Scout motore 50R627, 600 cc. Da quel momento in avanti la sua vita continuò in funzione di quella moto, con il solo scopo di aumentarne sempre più la potenza, in modo da spingerla al limite. Iniziò cosi a costruirsi i ricambi all’interno di un garage, realizzando ogni pezzo in modo artigianale. I primi pistoni, ad esempio, furono ottenuti versando dell’alluminio caldo all’ interno di buchi scavati nella spiaggia locale. Quando si parlava di forza di volontà e sacrificio si intende proprio questo, la voglia di andare avanti, in ogni modo, scavando buchi sulla spiaggia e versandoci al loro interno dell’alluminio fuso; oppure ricercare senza sosta la lega migliore, il materiale migliore, l’assetto, la carenatura, l’aerodinamicità, senza però mai stravolgere la vera natura della moto. “Ora puoi comprarti una moto veloce senza problemi” afferma Burt in un intervista fattagli nel 1970 “ma io sono nato nel secolo scorso e le mie moto le ho costruite tutte da solo”.

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il nostro portachiavi/apribottiglie realizzato per Indian Motorcycles

 

Quell’indimenticabile giorno in qui conquistò il primo dei suoi tre record mondiali, Burt fu ritrovato a terra, senza caschetto e senza occhialini, ancora incastrato nella propria moto, mentre rideva in modo isterico. Dopo l’arrivo dei soccorsi gli venne chiesto il perché di quella risata, e lui, con il sorriso in volto rispose umilmente, quasi la risposta fosse ovvia e scontata: “perché sono ancora vivo”. Dopotutto Burt ha sempre conosciuto i rischi della propria passione. In una lettera indirizzata al suo amico Jhon Andrews, grande appassionato e conoscitore di bicilindrici, Burt scrisse “Nel 1937 in una gara su spiaggia stavo viaggiando a 180km/h quando il pilota Hugh Currie in sella alla sua BSA Special pensò bene di svoltare mentre ero affiancato per sorpassarlo. Ho provato a frenare ma non riuscii ad evitarlo. Un gran colpo mi spezzò il casco in due pezzi. Volai per almeno 400 metri. Dal colpo persi quasi tutti i denti, tanto che mio fratello dovette raccoglierli dalla sabbia. Accorgermi di non avere più i miei inestimabili denti! fu uno dei momenti più tristi della mia vita“.

Quella non fu l’unica caduta. Nel 1941, durante una delle tante gare tra Nuovazelanda ed Australia, accusò un emorragia cerebrale, che gli causò, oltre ad un lungo periodo di recupero e di inattività, anche la separazione dalla moglie. Durante la sua carriera nelle corse ad alta velocità, dal 1920 al 1975, distrusse la moto centinaia di volte.

Nel 1959 all’età di sessant’anni cadde alla velocità di 180 km/h, ma nel giro di cinque mesi riuscì a guarire dalle ferite riportate, per poi tornare nuovamente in sella alla propria moto.

Ha inoltre partecipato a decine di gare clandestine, perché il suo unico desiderio era quello di portare la propria Indian oltre il traguardo, con l’obbiettivo, un giorno, di andare a Boneville, a correre sul lago salato teatro delle più importanti corse automobilistiche; ed una volta li, di sfrecciare, più velocemente di tutti. Di superare quell’invalicabile barriera dei 305 km/h.

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Potremmo raccontare mille aneddoti sulle avventure passate da quest’uomo, come quando, pur di arrivare a Boneville, con pochi soldi in tasca e la salute messa a dura prova, si pagò il viaggio in nave lavorando come cuoco. Aveva 63, il sorriso in faccia, e la voglia di non mollare per nulla al mondo.

Un pazzo si potrebbe pensare, un vecchio cocciuto e un po’ fuori di testa. Forse è stato anche tutto questo, ma chi ha mai avuto la fortuna di provare l’ebbrezza di guidare una moto, conosce bene ciò che si prova nel girare quella manopola, con la strada sgombra davanti a se, e la voglia di non rallentare mai.